Nel Parco Archeologico di Pompei per scoprire la Storia della relazione tra animali e uomini – Kodami

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C’è un posto nel mondo unico, in cui non distingui il confine sul quale finisce la Storia e inizia la contemporaneità. Camminare per le strade dell’antica Pompei è come stare in bilico sulla fune del tempo senza avere la paura di cadere: un luogo in cui duemila anni sono racchiusi tutti nel giorno in cui il corpo, la mente e il cuore di qualsiasi essere umano che si trovi lì diventano un unicum con chi lo ha preceduto. E quando poi si riesce a strappare la mente dalla fascinazione perenne che un posto tale imprime su chi lo visita, ecco che si scopre che i protagonisti di questo racconto eterno non sono solo gli uomini e le donne che abitano il mondo ma anche e soprattutto gli altri animali.
Cani, gatti, galline, cavalli, coccodrilli, leoni, gazzelle, arieti, orsi e molte altre specie. La loro presenza agli scavi di Pompei è ovunque: nei mosaici e negli affreschi. Sono immortalati in statue, eternamente custoditi nei calchi di gesso e addirittura personaggi principali dei disegni dei bambini sulle pareti delle case cristallizzate sotto la cenere nel tempo e restituite al mondo per sempre.
Kodami ha realizzato un documentario esclusivo: siamo stati agli Scavi per guardare la storia di Pompei da una prospettiva non solo antropocentrica, viaggiando nel tempo per raccontare, attraverso la voce di Luana Toniolo, archeologa e funzionaria del sito, una storia che riguarda gli esseri viventi tutti e come la relazione tra animali e persone fosse già un caposaldo della cultura dell’epoca, al di là dell’uso agricolo o alimentare che gli antichi romani facevano degli animali.
Il destino degli animali, umani e non, che vivevano in quella città di circa 30 mila abitanti finisce e inizia allo stesso tempo il 25 agosto dopo Cristo (o più probabilmente nell’ottobre del 79 d.C.). «Dobbiamo immaginare che all’inizio dal Vesuvio arrivò una pioggia di lapilli che pian piano riempì gli atri delle case e i giardini. Poi fece crollare i tetti e chi sopravvisse a questa prima fase, durata circa 12 ore, tentò di scappare dai primi piani delle abitazioni: la città era interamente ricoperta da pomici grigie in un vero e proprio clima lunare».
Luana Toniolo inizia così il racconto di un luogo che è stato e continua a essere fonte di ispirazione per l’umanità. Ma la sua narrazione per Kodami procede secondo una prospettiva di Pompei che ancora non era stata narrata. L’archeologa lo fa di fronte alle nostre telecamere ma, soprattutto, dando le spalle a un capolavoro appena restaurato e ancora non visibile al pubblico: l’enorme affresco di una scena di caccia nella Casa dei Ceii
«Coloro che provarono a fuggire durante l’eruzione erano disorientati: non si riusciva più a riconoscere la città. Ma purtroppo Pompei fu colpita da un’altra tremenda fase: alle 10 circa del giorno dopo arriva una corrente ad altissima temperatura e ad altissima velocità di ceneri e lapilli. Coprì tutto e conservò cose e esseri viventi per sempre. I corpi che ancora oggi noi archeologi continuiamo a trovare, però, non sono solo quelli di uomini, donne e bambini. I calchi che sono stati realizzati riescono a darci un’ultima e unica testimonianza delle persone che abitarono questa città circa 2.000 anni fa ma anche dei loro compagni animali che erano sempre presenti nella vita quotidiana: gli animali in generale e anche i domestici che erano già una realtà all’epoca, cani e gatti vivevano a stretto contatto come membri della famiglia».
Il viaggio nel tempo che vi invitiamo a fare con noi è dunque per scavare, questa volta, nella Storia delle relazioni tra umani e animali e scoprire che, 2000 anni fa il rapporto con gli altri esseri senzienti che abitano il Pianeta non era poi così diverso, nel bene e nel male, da quello che ancora oggi esiste. Come Luana Toniolo spiega, mentre ci accompagna per le strade di una città che si popola ancora una volta di uomini e, questa volta, di tanti animali all’ombra del vulcano: «I tempi possono cambiare ma poi la natura umana e i sentimenti rimangono gli stessi».
Entrare nelle case dei pompeiani del 79 dopo Cristo vuol dire immergersi nella loro vita quotidiana costellata di simbolismo animale. E prima di scoprire e tuffarsi nella profondità della relazione quotidiana che gli antichi romani avevano con cani e gatti in particolare, bisogna dipingere a nostra volta un affresco nella mente in cui le specie selvatiche sono predominanti nella cultura dell’epoca.
La fascinazione che proviene da territori lontani e da miti antichi è ancora oggi un memento nelle case dei ceti più abbienti e l’esempio più evocativo di ciò è la meravigliosa parete affrescata nella quale ci si immerge entrando nella Casa dei Ceii.
Il vicolo del Melandro, da dove si accede, è una strada a cui si arriva percorrendo via dell’Abbondanza. Già solo l’ingresso di questa abitazione porta nel regno degli animali: un tavolo di marmo con teste di leoni svetta nella parte antistante per poi arrivare nel giardino in cui il respiro viene spezzato di fronte all’affresco a tutta parete che si mostra nella sua originaria magnificenza grazie a un recente restauro. Ad oggi la Casa dei Ceii è ancora chiusa al pubblico.

«E’ una delle domus più antiche e più note di Pompei – spiega Luana Toniolo – Ciò che la caratterizza è questa bellissima pittura che riproduce una scena di caccia con animali selvatici. Si riconoscono, ad esempio, antilopi, gazzelle e tori. E’ stato riprodotto qui un topos della pittura pompeiana perché tra il Primo secolo avanti Cristo e il Primo secolo d.C. negli spazi da giardino si ricreavano scene così per portare la natura dentro le case. Nella fascia più bassa dell’affresco ci sono delle piante proprio per ricreare l’atmosfera e far sentire gli ospiti parte di paesaggi lontani in cui vivevano gli animali esotici. Il mondo che viene richiamato è soprattutto quello con animali che i romani avevano incontrato in Egitto e in altre parti del Nord Africa. Molti pompeiani non li conoscevano direttamente ma ne hanno fatto la loro iconografia che viene riprodotta in molteplici abitazioni: dovete immaginare che gli abitanti dell’epoca banchettavano in questo spazio e possiamo anche supporre che alcuni di questi animali erano stati visti nei giochi che si svolgevano nell’anfiteatro. Spettacoli in cui le fonti ci raccontano che venivano coinvolti orsi, giraffe e altri animali selvatici».
Un altro esempio di quanto i romani fossero affascinati dagli animali di grande stazza è il mosaico a pavimento nella Casa dell’orso ferito, che risale alla metà del Primo Secolo d.C. e deve il suo nome proprio all’animale che accoglie i visitatori con accanto la scritta “HAVE” (saluto).
L’affresco nella Casa dei Ceii è comunque uno degli esempi più importanti del forte impatto degli animali nella cultura romana: mostra anche lupi contro cinghiali, una tigre che rincorre un ariete, un leone che vuole afferrare un toro e ai lati ci sono paesaggi del Nilo con altri animali del delta egiziano: non ci sono esseri umani, la caccia è mostrata dal punto di vista degli animali, prede e predatori nella dinamica naturale degli eventi che caratterizzano la vita di ogni specie.
Il riferimento ai giochi gladiatori che l’archeologa ha fatto spiegando l’affresco della casa dei Ceii porta alla mente un dettaglio su un altro affresco che apre una finestra sulle fantasie dei bambini di Pompei. Oggi come allora, i più piccoli rimanevano affascinati proprio dagli animali e anche dagli uomini che lottavano all’ultimo sangue nelle arene. All’interno dell’Antiquarium, la sede espositiva che ha finalmente dato al Parco archeologico un luogo in cui i visitatori possono ammirare in loco i reperti, c’è un dipinto che adornava una delle case di Pompei. Bisogna però guardarlo con attenzione per scoprire che in basso ci sono delle incisioni: sono i disegni dei bimbi che riproducevano i combattimenti che si tenevano anche nell’anfiteatro della città. Si distinguono uomini con le armature tipiche dei gladiatori a animali selvatici con cui si scontrano con armi e a mani nude.
«Gli animali fanno parte anche del mondo religioso di Pompei e i pompeiani avevano all’interno delle case dei piccoli altari domestici, i larari, dedicati al culto degli antenati in cui si trovano spesso riferimenti alla fauna», continua Luana Toniolo.
Basta infatti spostarsi di poco dalla Casa dei Ceii e entrare nell’abitazione accanto, la Casa del Criptoportico, in cui si trova un larario caratterizzato da uno degli animali più simbolici dal punto di vista religioso. «Abbiamo trovato durante gli scavi anche offerte di tipo cruento di piccoli animali, ad esempio di uccellini. Dagli studi archeozoologici si è compreso che sono gli stessi che spesso vediamo anche rappresentati negli affreschi. Sui larari però c’erano anche raffigurazioni che omaggiano gli animali e una davvero tipica in tutti i contesti pompeiani è quella dei serpenti».
Serpenti dalle grandi spire che nel mondo romano avevano una valenza diversa da quella che è la nostra percezione odierna: «Per noi il serpente è un animale pericoloso, “cattivo” – spiega Toniolo – Ma per loro era un daimon ovvero uno spirito degli elementi positivi e serviva proprio ad allontanare la negatività dalla casa».
Dalla religione alla mitologia il passo è breve, in un luogo in cui «molte pitture ci mostrano diversi animali che i pompeiani potevano conoscere più o meno direttamente e che raccontano storie di divinità. Abbiamo ad esempio nella Casa del Menandro la raffigurazione di Diana e Atteone. Rappresenta il momento in cui la dea trasforma Atteone, un cacciatore che aveva osato guardarla mentre faceva il bagno nuda, in cervo. Atteone poi viene sbranato dai cani. In diverse domus si sono trovati esempi pittorici che ricordano questo episodio, come l’affresco più noto nella Domus della Caccia Antica dove è raffigurato anche Apollo che, secondo altre interpretazioni, preso dalla gelosia nei confronti della sorella, sarebbe il vero artefice della morte di Atteone. Ancora, come si vede nell’immagine a seguire, nella Casa di Octavius Quartio si possono ammirare due dipinti che raffigurano Diana che fa il bagno nuda e Atteone che viene divorato dai cani per averla guardata.
Il mito della dea è da sempre legato nel nostro immaginario a quello della caccia. Ma sfatiamolo: Artemide, questo il suo nome per gli antichi greci, aveva con gli animali un rapporto sacro, era “signora delle selve, protettrice degli animali selvatici, custode delle fonti e dei torrenti, protettrice delle donne cui assicurava parti non dolorosi e dispensatrice della sovranità”. La sua protezione, dunque, era nei confronti degli animali e non certo dei cacciatori.
Camminare per le strade dell’antica Pompei pensando al legame con gli animali non può non far venire in mente la parola “fauna” e pensare nel campo della mitologia al Fauno. E la Domus a suo nome è una delle più grandi: occupa un isolato di 3000 metri quadri. Si chiama così perché ad accogliere i visitatori c’è la statua del dio a cui gli antichi si appellavano per proteggersi dagli animali e, soprattutto, soggiogarli per i propri scopi.
Fauno era “il dio della campagna, dei pascoli e dell’agricoltura, contrapposto al dio dei boschi, Silvano. Era il difensore delle greggi e degli abitanti della campagna dagli assalti dei lupi e lupo egli stesso” raccontano le fonti. Eppure, secondo quanto scrisse Marco Terenzio Varrone nel De lingua Latina Fauno non aveva una grande considerazione nei confronti della nostra specie. “Ogni tipo di saggezza umana è vana“: sono le sue parole riportate dal letterato romano.
Andando oltre l’entrata della Casa del Fauno si può ammirare anche il mosaico del II secolo a.C. della battaglia tra Alessandro Magno e il re persiano Dario in cui svettano le figure possenti dei cavalli. Entrambe le opere presenti agli Scavi sono però delle copie: gli originali si trovano al Museo Archeologico Nazionale di Napoli dove è custodito anche un meraviglioso mosaico in cui svettano un coccodrillo, delle anatre, un serpente e un ippopotamo.

Le ossa iniziano a brillare, ritornano al colore bianco originario grazie al lavoro complesso e accurato che sta portando avanti un team interdisciplinare su un reperto unico: il cosiddetto “cavallo di Maiuri“. «E’ un progetto che abbiamo avviato recentemente: il restauro di uno scheletro equino che Amedeo Maiuri aveva esposto in piedi. Era stato dimenticato per decenni e giaceva in condizioni di grande degrado. Lo stiamo facendo proprio perché miriamo a comunicare meglio a chi viene a visitare Pompei l’importanza che avevano gli animali nella vita di tutti i giorni», spiega Luana Toniolo.
Il cavallo è stato ritrovato all’interno di un’antica stalla dal famoso archeologo a cui si devono scoperte importantissime: «Nel 1938 Maiuri stava scavando a sud di via dell’Abbondanza e trovò uno stabulum. Lo capì perché aveva trovato una struttura quadrangolare in muratura, identificata come una mangiatoia, e piano piano dalla cenere iniziò ad emergere la testa dell’animale e tutto il resto del corpo. E’ un cavallo piccolo di stazza: al garrese è alto un metro e 34 ed era utilizzato per trasportare le merci all’interno della città. Questi animali erano usati per trainare i carri, come quello che è stato trovato nella Casa del Menandro: strutture molto semplici, a due ruote e che trasportavano derrate alimentari».
«Varrone e Columella, che sono i due scrittori del De re rustica in cui si racconta la vita della campagna, ci dicono che nel mondo romano c’erano tre tipi diversi di equini: il cavallo selezionato, il cavallo di razza di grandi dimensioni e i muli. E anche su questo Pompei non smette mai di stupirci – continua l’archeologa – perché abbiamo gli scheletri di tutte le tipologie e abbiamo potuto fare i calchi». Durante le attività di scavo più recenti in località Civita Giuliana, nell’area di una grande villa suburbana gli archeologi hanno identificato infatti una stalla con i resti di tre cavalli bardati e lì saranno poi anche scoperti gli ultimi scheletri umani ritrovati, i cosiddetti “fuggiaschi”, altre due persone colte dalla furia dell’eruzione.

«Per quanto riguarda gli animali a Civita Giuliana abbiamo potuto realizzare l’unico calco di cavallo mai fatto a Pompei di un soggetto di grandi dimensioni. Appartiene al primo tipo di cui parla Columella perché è un cavallo selezionato di razza molto grande e che si trattasse di un soggetto importante l’abbiamo capito anche dalla bardatura: abbiamo trovato i resti della museruola del morso in bronzo, ancora con frammenti di cuoio. C’erano anche elementi della sella e del sistema di briglie che andavano attorno alle orecchie tant’è che abbiamo pensato in origine che si trattasse della casa di un generale romano. Poi con l’avanzare degli scavi abbiamo capito che eravamo in una villa di grande ricchezza ma il cavallo era bardato perché era appena stato utilizzato, ancora pronto per trasportare un carro».
Pompei ha restituito alla Storia anche cavalli che facevano parte della vita di tutti i giorni, proprio come quello di Maiuri che ora è in un laboratorio che Kodami ha potuto visitare in esclusiva. Nel team di esperti lavora Deborah Fagiani, restauratrice di Beni culturali: «In questo momento stiamo facendo la stuccatura, ovvero la reintegrazione delle ossa con una resina bicomponente. Stiamo colmando tutte le fratture che ci sono e ricostruendo la struttura. Questo cavallo ha subito diversi interventi e soprattutto è stato oggetto di una stuccatura che non era assolutamente idonea con del materiale molto tenace».
Il cavallo ora è stato smontato dal supporto che rendeva la sua postura non corretta. «Prima di consolidare le ossa è stato fondamentale pre consolidarle – conclude la restauratrice – Dopo di che è stato rimosso il tubo che era all’interno e siamo dovuti intervenire con mezzi meccanici per poterlo rompere. Il risultato finale è ciò che vedete: ossa completamente pulite, stuccate e reintegrate e quindi l’intervento successivo sarà solamente quello di una protezione finale. Così il cavallo ritornerà nella sua stalla».
Prima di procedere alla smontatura del cavallo che Maiuri aveva esposto in piedi la tecnologia è stata fondamentale: «Abbiamo fatto un rilievo con il laser scanner al fine di ottenere un modello 3D di quello che si è conservato mediante il confronto con le foto d’epoca e soprattutto con la collaborazione di un archeozoologo – conclude Toniolo – Stiamo ora lavorando anche sulle parti mancanti perché purtroppo ha perso molto della gabbia toracica. Poi lo rimetteremo in piedi in quella che però è la sua corretta posizione. Maiuri aveva ricostruito in modo molto semplice, ora grazie agli studi scientifici e agli specialisti lo ricollocheremo proprio nella sua vera postura».
«Giuseppe Fiorelli fu senza dubbio il più importante archeologo che operò a Pompei nell’Ottocento. Ispettore ordinario negli Scavi di Pompei dal 1847 e in seguito direttore degli scavi dal 1860 al 1875 ebbe, tra numerosi meriti, quello dell’invenzione del metodo per eseguire i calchi delle vittime dell’eruzione». Così viene descritta sul sito ufficiale del Parco Archeologico una figura fondamentale per la scoperta degli Scavi e che ha concesso al mondo di assistere ogni giorno al momento esatto della morte di tanti altri esseri viventi. E’ così: i calchi ci mostrano lo strazio, il dolore, lo stupore e tutte le emozioni ingessate per sempre. Come scrisse Luigi Settembrini quelle “statue” sono «il dolore della morte che riacquista corpo e figura».
Degli esseri umani che loro malgrado sono diventati nel tempo un simulacro della nostra caducità tanto se ne è già scritto e parlato. Ma ci sono i calchi degli animali di cui invece poco si è detto e che ci raccontano quanto davvero si è tutti simili di fronte alla fine dell’esistenza.
E nessun altro animale quanto un cane può colpirci profondamente a livello emotivo per la lunga storia di amicizia e co evoluzione che abbiamo con questa specie. Vedere un cane nell’ultimo straziante momento della morte, alla fine sicuramente di una lunga agonia, è uno dei momenti chiave della storia di Pompei dalla prospettiva della nostra relazione con gli animali.
«Già a Pompei, come avviene oggi, si facevano selezioni di razze canine – spiega Luana Toniolo – Si incrociavano i soggetti e c’erano anche veri e propri corsi di addestramento. Ci sono diverse testimonianze pittoriche e mosaici di cani tenuti alla catena all’ingresso delle case. Abbiamo testimonianza di ciò oltre che dagli affreschi e dai mosaici anche attraverso una drammatica testimonianza materiale. Il 20 novembre 1874, Fiorelli, scoprendo la Casa di Orfeo, una dimora molto ricca, riesce a realizzare il calco di un cane che è morto durante l’eruzione non potendo scappare perché, appunto, legato a una catena».
Quello che rimane di lui è tutto il dolore e la paura che deve aver provato in quei momenti: «E’ un cane di media taglia, come erano la maggior parte degli individui presenti all’epoca. Il suo calco è una “scena” tremenda: ci mostra tutta la forza dell’eruzione perché il cane si contorce negli ultimi attimi di vita a causa dei gas e della temperatura altissima, tra cenere e lapilli. Di fronte a noi c’è un animale che esala il suo ultimo momento di vita, nello spasmo causato dai muscoli – continua l’archeologa – E si vede chiaramente anche il suo collare che è simile a quelli che ancora usiamo noi: ha delle semplici borchie e averlo lasciato legato non gli ha concesso di scappare e sopravvivere».
Il cane del calco è così il Cave canem per eccellenza. Quel componente della Domus a cui stare attenti (“attenti al cane” è la traduzione dal latino) che in diversi mosaici, soprattutto, veniva raffigurato su grandi pavimenti all’entrata delle case e che ancora oggi risalta come avviso sui cancelli di alcune ville in tutto il mondo.
«Il Cave canem più famoso è all’ingresso della Casa del Poeta tragico ma lo troviamo anche nella Casa di Pachio Proculo. Ha una funzione che noi archeologi chiamiamo “apotropaica” cioè di difesa e di allontanare sia gli spiriti negativi che i ladri dalla dimora. Voleva essere anche una sorta di avvertimento perché se si osava andare oltre la soglia di sicuro si sarebbe incontrato un cane pronto a proteggere la proprietà», spiega Toniolo.
I cani di Pompei, alcuni di loro, avevano oltre a quello della difesa della proprietà anche un altro compito da svolgere secondo le esigenze degli esseri umani: «Venivano utilizzati per l’attività venatoria – aggiunge Toniolo – per scovare prede piccole ma anche animali più grandi come i cinghiali e sappiamo dagli scritti di Plinio o di Varrone che venivano proprio addestrati per aiutare l’uomo nella caccia». E di segugi e levrieri immortalati nelle case di Pompei ce ne sono davvero tanti, come quelli che inseguono un cinghiale sul pavimento a mosaico della Casa del Cinghiale o la scultura in bronzo in cui una coppia assale un ungulato nel giardino della Casa del Citarista.
Cani che «avevano un loro nome e lo sappiamo dalle fonti che nel mondo antico c’era questa consuetudine. Senofonte, nel suo trattato di caccia, consiglia nomi brevi per poterli pronunciare facilmente e dare immediatezza agli ordini; l’autore cita tra questi: Psychè, Thimos, Bia, Aktis e Heba». Sono Gateano Vincenzo Pelagali e Michele Di Gerio, rispettivamente veterinario e archeozoologo – autori di un libro intitolato “Il cane nell’arte pompeiana”  – a ricordarlo anche attraverso l’intervista che hanno rilasciato proprio a  Kodami.
Ma se il calco del cane a catena e l’utilizzo dei cani per l’attività venatoria ci ricordano la parte più utilitaristica del nostro relazionarci con i cani che ancora oggi sopravvive in Italia come nel resto del mondo, c’è un altro aspetto poco noto che era presente già nella vita dell’epoca: a Pompei c’era la normalità del condividere la vita quotidiana con i cani, concependo l’animale come un vero e proprio membro della famiglia. Non solo lupoidi, molossoidi e segugi dunque ma anche animali di stazza piccola dei quali facevano richiesta soprattutto le “nobildonne” e di cui vi erano «allevamenti specializzati in diverse località descritti da Aristotele», ricordano ancora Pelagalli e Di Gerio.
«Negli scavi più recenti siamo stati fortunati – sottolinea la funzionaria del Parco archeologico – L’anno scorso, dove è stato trovato il meraviglioso e affrescato bancone di un termopolio in cui i protagonisti sono sempre gli animali (anatre, una gallina e un cane sempre con il collare, ndr) abbiamo recuperato anche le ossa di un cane piccolino che probabilmente era quello che per consuetudine ancora oggi definiamo “da compagnia”. I nostri esperti di archeozoologia hanno valutato che probabilmente è il cane più piccolo mai rinvenuto nel mondo romano: aveva dimensioni poco più grandi dei Chihuahua come li conosciamo oggi. Un caso veramente unico che ci fa capire anche l’importanza dei cani nelle famiglie di tutti i ceti sociali e quanto fossero una parte fondamentale nella vita di tutti i giorni degli antichi pompeiani».
Come il piccolo cane del Termopolio doveva essere anche Sincletus. E’ questo l’unico nome proprio di cui abbiamo diretta conoscenza di un cane dell’antica Pompei. Apparteneva a quello che sembra un piccolo e tenace Terrier ed è stato il suo umano di riferimento, migliaia di anni fa, a volerlo rendere eterno facendolo immortalare sul muro di casa e ricordando a tutti anche come si chiamava.
«Ancora una volta vediamo come i tempi possono cambiare ma poi la natura umana e i sentimenti rimangono gli stessi – commenta Toniolo – Da una casa nella Reggio V, infatti, sappiamo da un graffito che uno di questi cani aveva un nome: era Sincletus e sicuramente non era l’unico cane di Pompei che viveva in una domus perché era parte della famiglia e non perché avesse un compito specifico di lavoro, guardia o caccia che fosse. Sono passati duemila anni ma il ruolo era esattamente lo stesso che oggi tanti cani hanno nelle case delle persone: avere un nome è proprio un segno di affetto, chiaramente inclusivo dell’animale nel proprio nucleo familiare».
E c’è anche un’altra “fotografia” che ci arriva dai reperti di Pompei che fa ritornare alla mente quel “dream team” di cui fanno parte cani e uomini quando collaborano e che già in quei lontani giorni accadeva. «È stato Maiuri il primo a ipotizzare che alcuni cani potessero anche servire da guida per i non vedenti. In un affresco si vede un uomo con un cane: sembra che abbia un guinzaglio a due corde, probabilmente ieri come oggi i cani aiutavano i disabili nella vita di tutti i giorni».
L’affresco a cui fa riferimento Luana Toniolo è davvero incredibile: secondo la ricostruzione fatta da Pelagalli e Di Gerio e grazie alla grafica di Francesca Longo, mostra un uomo anziano, probabilmente un mendicante, che tiene un cane con due lacci: ricordano tantissimo l’imbracatura che oggi si utilizza per i cani da accompagnamento per i non vedenti.
In letteratura
Mentre Luana Toniolo sta per chiudere la porta del tempo che ha aperto per noi, mostrandoci quel mondo di convivenza tra gli esseri viventi che abitavano Pompei duemila anni fa, ecco che il suono di un miagolio riempie la Casa dei Ceii. Lo sguardo dell’archeologa e di tutti i presenti si volge verso l’alto e lì, sulle rovine della domus, un gatto scivola elegantemente sul mondo che continua a scorrere, da sempre, intorno a lui.
«Oggi come ieri, è davvero il caso di dirlo – conclude sorridendo la funzionaria e riportando lo sguardo verso la nostra telecamera – c’erano anche i gatti a Pompei. Li conosciamo molto meno rispetto ai cani perché non abbiamo trovato loro scheletri e quindi non abbiamo dati diretti archeozoologici. Però ci sono i mosaici: in particolare uno molto bello è conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli e ci mostra un gattino di piccole dimensioni che gioca con il cibo».
E andando via tra le strade riportate a una nuova vita sono proprio i gatti gli attuali, unici abitanti di questo immenso tesoro archeologico. Del resto nel sito archeologico deserto l’inverno scorso a causa della pandemia, proprio l’account ufficiale su Facebook del Parco aveva fatto un omaggio ad alcuni mici pubblicando le loro foto con una dedica speciale: «In una Pompei ancora senza turisti, passeggiano alcuni gatti. Sono tra le poche figure che si aggirano per gli scavi, oltre ai custodi e al personale al lavoro per preservare il sito», era il testo che accompagnava il post.
Un gatto è un leone in una giungla di piccoli cespugli” recita un poema indiano. E a Pompei i gatti anche oggi si rilassano al sole di una giornata che svolge al termine in un gennaio dell’anno 2022 in cui uomini e animali di ogni tempo si sono di nuovo incontrati.
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Con la collaborazione in redazione di Maria Neve Iervolino
Video Credits:
Autori del video: Aniello Ferrone, Francesca Iandiorio
Riprese: Simone Iavazzo
Produzione: Francesca Ferara
Animazioni: Aniello Ferrone, Francesca Iandiorio, Francesca Ferrara

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